Gli anni dal 1885 al 1890 offrirono al movimento anarchico maggiori opportunità, rispetto al quinquennio precedente, per confermarsi come movimento d’avanguardia con un seguito significativo della classe operaia. Un settore industriale debole e in declino, un’agricoltura depressa, un sistema bancario instabile e corrotto, così come politiche governative disastrose, come la guerra tariffaria di Crispi con la Francia, furono situazioni che si unirono per creare estreme difficoltà per i ceti popolari. La risposta fu una maggiore militanza e un’agitazione più pervasiva delle classi salariate, sia della città che della campagna, rispetto a qualsiasi altro momento dall’unificazione: scioperi dei braccianti nella pianura padana, crescita di organizzazioni di resistenza tra gli operai delle fabbriche del nord, scioperi dei lavoratori tessili in Piemonte e Lombardia, manifestazioni di massa di operai edili disoccupati a Roma.
Il potenziale rivoluzionario insito in questo malcontento popolare convinse la parte più attiva del movimento anarchico che era giunto il momento di scrollarsi di dosso la letargia del periodo post-Internazionale e riprendere l’azione militante in stretta associazione con gli operai dell’industria e dell’agricoltura. Mentre una parte dei loro compagni rimase passiva e disapprovante, un certo numero di giovani pieni di spirito, che divennero leader della nuova generazione, dimostrarono ad amici e nemici che il movimento anarchico non era affatto morto e sepolto.
Luigi Galleani e Pietro Gori furono le figure più in vista di questa nuova generazione, a cui si aggiunsero Luigi ed Ettore Molinari dalla Lombardia; Galileo Palla dalla Toscana; Cesare Agostinelli, Adelmo Smorti, Emidio Recchioni e Rodolfo Felicioli dalle Marche; Eugenio Pellaco dalla Liguria; Ettore Gnocchetti e Pietro Calcagno da Roma.
Questa giovane generazione non trovava tuttavia negli ex-internazionalisti un punto di riferimento in sintonia con le loro esperienze: la maggior parte dei circoli anarchici e le pubblicazioni vivacchiavano in una condizione di passività scontenta, ora rafforzata ideologicamente dalle posizioni espresse da Pëtr Alekseevič Kropotkin, la cui influenza in materia di ideologia eclissò presto quella di tutti gli altri i pensatori anarchici. Il fatalismo di Kropotkin e la visione armoniosa dello sviluppo sociale (il comunismo anarchico avrebbe trionfato immediatamente dopo la rivoluzione in conformità con le leggi della natura e gli individui avrebbero potuto fare ciò che volevano e prendere ciò di cui avevano bisogno) erano enormemente attraenti per un movimento che aveva sperimentato sconfitta e disillusione. Entro il 1890, quindi, le idee di Kropotkin avrebbero assunto l’autorità del dogma. Il tipico impegno che quei circoli anarchici scelsero di perseguire – “preparare lo spirito per la futura rivoluzione” – era rappresentato dalla propaganda della parola: distribuzione di volantini, affissione di manifesti sui muri, stampa di opuscoli e soprattutto pubblicazione di giornali. Una tale attività, tuttavia, difficilmente poteva rappresentare la missione rivoluzionaria del movimento anarchico e generare uno spirito di attivismo militante tra le classi sfruttate.
È in questo quadro che si inserisce il ritorno di Errico Malatesta dall’Argentina. La strategia dell’agitatore anarchico si era modificata a contatto con il nascente movimento operaio di quella parte del mondo, a cui l’anarchismo e lo stesso Malatesta avevano dato un contributo fondamentale. Successivamente Malatesta, arrivato a Londra, aveva partecipato in prima persona al grande sciopero dei portuali, che rappresentò un momento di svolta del movimento operaio e dell’anarchismo internazionale. La giovane generazione del movimento anarchico stava maturando esperienze diverse da quella della precedente generazione, che aveva dato vita all’Internazionale, e non era ossessionata come la precedente dai miti insurrezionali risorgimentali. Da una parte questa generazione trovò nel travaglio teorico e strategico dell’esule che tornava dall’altra parte dell’Atlantico un punto di riferimento più solido rispetto agli esponenti italiani, dall’altra Errico Malatesta trovò un ambiente in cui verificare l’efficacia delle sue nuove convinzioni e pratiche.
Seguirò pertanto l’evoluzione del pensiero di Errico Malatesta in questi anni, non tanto perché la sua azione, come alcuni sono convinti, abbia scosso l’immobilismo del movimento anarchico, ma perché esprime al meglio le aspirazioni della nuova generazione di militanti.
Deciso a riprendere l’iniziativa in Italia, Malatesta lascia l’Argentina con un gruppo di compagni nel settembre del 1889 e si stabilisce a Nizza. Mentre i suoi compagni raggiungono Nizza, l’agitatore anarchico passa prima per Londra, dove ha l’occasione di partecipare alle iniziative di sostegno allo sciopero dei portuali e dove si rende conto della forza potenziale del movimento operaio, perfino in quella che allora era la capitale di un impero mondiale. A causa della condanna del 1884, Malatesta non poté tornare in Italia e dovette mantenere segreta la sua presenza in Francia, poiché era soggetto ad arresto per aver violato un decreto di espulsione risalente al 1880. Rivelata inavvertitamente la sua identità, Malatesta e i suoi compagni trasferirono il giornale “L’Associazione” a Londra a novembre. Il periodico cessò improvvisamente le pubblicazioni due mesi dopo.
“L’Associazione” rappresentò una pietra miliare nella evoluzione del pensiero di Malatesta, perché le idee da lui espresse sul periodico rappresentavano una completa rottura col suo pensiero precedente anche se, ovviamente, sempre nell’ambito dell’anarchismo.
Come scrive Gino Cerrito in “Dall’insurrezionalismo alla Settimana Rossa”:
“Ancor più di prima, egli [Malatesta] riteneva ora fondamentale l’organizzazione delle forze rivoluzionarie, non solo per fini strumentali, ma perché l’accordo, l’associazione, l’organizzazio10ne sono la legge della vita e il segreto della forza, oggi come dopo la rivoluzione. Intanto, quello che l’agitatore proponeva per il movimento anarchico italiano era un ammodernamento rispondente alle esigenze della propaganda e della necessità di aggregazione e rafforzamento. In primo luogo, la costituzione di un aperto “partito socialista anarchico rivoluzionario internazionale”, con piattaforma strumentale comune “a tutti gli anarchici appartenenti a tendenze diverse”. Lo schema non prospettava la forma di organizzazione della società post-rivoluzionaria su cui i gruppi potevano divergere e che solo l’esperienza – egli diceva – sotto nuove forme potrà suggerire; ma precisava i punti su cui gli anarchici non potevano non essere d’accordo, senza rivelare vuotezza ideologica, confusione mentale e improvvisazione dottrinale. In secondo luogo, Malatesta deplorava l’isolamento degli anarchici dalle masse lavoratrici e auspicava che essi la smettessero di darsi l’aria di filosofi, invitandoli alla pratica associativa diretta, dello sciopero generale, della solidarietà di classe, al di sopra di ogni divisione di tendenza. In terzo luogo, interveniva sulla questione della propaganda terroristica, dichiarandosene contrario, giacché la realizzazione dell’anarchismo – diceva – comporta l’utilizzazione non di tutti i mezzi, ma dei mezzi propri, dei mezzi corrispondenti al fine che s’intende raggiungere; l’atto terroristico, anche se è compreso e giustificato, non può essere incoraggiato perché fondato generalmente sull’odio, e perché l’odio non può rinnovare il mondo”.
A queste problematiche possiamo aggiungere una diversa considerazione del rapporto fra masse e minoranze agenti: le masse non erano più semplici ricevitrici degli stimoli provenienti dalle minoranze agenti, ma soggetti protagonisti di un proprio percorso di emancipazione, che le minoranze dovevano comprendere e favorire, ma non soffocare con giudizi dottrinari. In questo senso Malatesta sottolineava che la componente anarchica all’interno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori aveva adottato le stesse pratiche autoritarie di quella marxista, ritenendo che l’adozione nei Congressi di formule sempre più avanzate rispecchiasse la maturazione rivoluzionaria dei militanti di base. In realtà questo non era avvenuto, e se i militanti avevano cercato di rimanere al passo con le elaborazioni teoriche, le associazioni operaie vere e proprie si erano allontanate a causa del dottrinarismo.
Per quanto Malatesta rifuggisse dai rigidi schematismi teorici, non si può non riconoscere in questi temi una decisa svolta classista che compie il movimento, dettata anche dal fatto che i militanti più attivi non sono più i giovani intellettuali rivoluzionari, delusi dal risultato dell’unificazione della penisola. I militanti ora sono soprattutto operai, artigiani e braccianti, impegnati nella lotta quotidiana contro la borghesia e contro il governo, che non si accontentano solo di indicazioni su come edificare la nuova società dopo la rivoluzione, ma cercano indicazioni pratiche sugli aumenti di salario, la riduzione dell’orario di lavoro, le forme di organizzazione sindacale.
A queste domande “L’Associazione” cerca di dare una risposta, ma soprattutto cerca di mantenere la coerenza tra mezzi e fini.
È a questo punto che emerge la differenza tra l’azione di Andrea Costa e quella di Errico Malatesta. Anche Andrea Costa, nella sua “Lettera agli amici di Romagna”, era partito dalla crisi dell’Internazionale, sostenendo che l’insurrezionalismo era stato controproducente. Privati della libertà per anni o costretti all’esilio, gli internazionalisti avevano perso il contatto con le lotte quotidiane e le pratiche della vita reale; si erano ripiegati su se stessi e si erano preoccupati più della logica delle loro idee e della rapida realizzazione del loro programma che di studiare le condizioni economiche e morali del popolo e i suoi bisogni immediati. Di conseguenza, gli internazionalisti si erano allontanati troppo dal popolo, che non li capiva né seguiva quando alzavano la bandiera della rivolta. Costa esortava, quindi, gli internazionalisti a trarre profitto dall’esperienza e a riprendere il lavoro che era stato interrotto “emergendo ancora una volta tra il popolo e trovando in esso nuova energia per le nostre forze”. Solo che la soluzione che dava Costa a questa crisi era quella dell’elettoralismo. Costa era convinto che la lotta per le riforme politiche ed economiche fosse necessaria per sviluppare la coscienza rivoluzionaria e il temperamento del proletariato: una volta che questi lavoratori politicamente coscienti fossero diventati coscienti del fallimento delle riforme per cambiare il sistema capitalista, lo avrebbero rovesciato per mezzo di una rivoluzione violenta. È la tattica massimalista che tanti danni avrebbe fatto negli anni 1919, 1920 e successivi.
Malatesta, al contrario, esprimeva la convinzione del movimento anarchico che, se le masse sfruttate dovevano essere protagoniste della rivoluzione, potevano arrivare a questo punto solo attraverso un percorso in cui la crescita della radicalità della lotta si accompagnasse alla costruzione di strumenti unitari e autonomi, come le leghe e i sindacati, destinati a svolgere un ruolo fondamentale nella lotta quotidiana e nella trasformazione rivoluzionaria; un percorso che non poteva essere periodicamente interrotto dagli appuntamenti elettorali. Ancora una volta si tratta di propaganda col fatto, ma questa volta il fatto non è un appuntamento occasionale, ma la pratica libertaria applicata alla lotta di classe, pratica libertaria nelle rivendicazioni, nella costruzione degli organismi di massa, nei rapporti con le altre forze politiche e sociali. Questi temi saranno discussi e praticati dall’anarchismo italiano nei decenni a seguire e costituiranno la base per i vasti movimenti di massa antimilitaristi e anticapitalisti dei primi decenni del secolo.
Andrea Costa, alcuni mesi dopo la sua lettera, giurerà fedeltà al re.
Tiziano Antonelli